La transizione ecologica in una dimensione economica allargata. Di Arturo Gulinelli
Gli obiettivi che la Commissione Europea si è data, da molto tempo e in particolare dal luglio del 2021, sono estremamente ambiziosi: "rendere l'Europa il primo continente al mondo a impatto climatico zero è uno degli impegni vincolanti della normativa europea sul clima". Occorre ricordare che il Green Deal Europeo è stato presentato dalla Commissione Europea già nel dicembre del 2019.
Come anticipato nel luglio 2021 la Commissione ha adottato provvedimenti e proposte per far in modo che i vari settori dell'economia dell'UE fossero incentivati a seguire politiche di riduzione delle emissioni di almeno il 55% entro la fine del decennio (2030). Grazie al pacchetto legislativo "pronti per il 55%", l'UE ha posto in prima linea obiettivi climatici ambiziosi, che oltre alla riduzione prevista per il 2030 dovrebbero portare l'Europa ad emissioni zero entro il 2050. Questi obiettivi sono stati criticati, soprattutto dopo i cambiamenti geopolitici intervenuti a seguito del conflitto tra l'Ucraina e la Russia e l'aumento del costo dell'energia che in parte è connesso ai mutati scenari.
Le domande che molti economisti si fanno, e che anche il rapporto Draghi ha messo in rilievo, riguarda la possibilità di decarbonizzare l'economia senza perdere la competitività di alcuni settori economici e se sia conveniente fare la transizione green creando delle dipendenze economiche e politiche per talune materie prime da paesi lontani che possono non essere affidabili.
Quando si guarda ai processi di decarbonizzazione di un paese si pensa spesso ad alcuni fattori in termini di valutazione economica e quasi sempre in modo negativo:
- la riduzione delle emissioni mette a rischio le imprese energivore che devono fare investimenti in tecnologie per diventare più sostenibili;
- le tecnologie meno inquinanti rendono uno stato o un continente dipendente dai produttori esteri di impianti e materie prime, compromettendone o riducendone l'autonomia strategica.
Difficilmente si considerano gli aspetti positivi:
- un processo di decarbonizzazione renderebbe le imprese più sostenibili e meno rischiose, il costo del capitale è certamente più basso per le imprese green rispetto a quelle brown;
- le imprese che investono in tecnologie green ricorrendo all'autoproduzione di energia, anche se solo in parte, sopporteranno nel medio e lungo periodo un costo inferiore della bolletta elettrica;
- il risparmio di consumi derivante dagli investimenti in tecnologie green fatti dai privati, delle imprese e dalle pubbliche amministrazioni è un processo che genera processi virtuosi e una maggiore autonomia e sicurezza energetica (delle imprese ma anche del paese);
- la riduzione dell'inquinamento, che nasce dall'adozione di un processo di decarbonizzazione, riduce i rischi di malattie e i costi per le bonifiche o per il ripristino territoriale, andando anche a mitigare gli interventi per il dissesto ambientale.
Del resto, oggi il ns paese dipende da paesi esteri per la fornitura di gas, che viene importato e usato per produrre energia, mentre se importiamo pannelli fotovoltaici dipenderemmo certamente da altri paesi per questi materiali ma ridurremmo la dipendenza dai primi e inquineremmo di meno.
Ma la cosa più rilevante che manca alla quasi totalità degli studi sulla transizione ecologica riguarda la stima dei costi esterni. Viene trascurato il peso dei costi sanitari per l'inquinamento, e bisogna aggiungere anche la parte di costi causata dal dissesto idrogeologico e quelli causati da eventi atmosferici avversi; costi che i paesi e i cittadini e le imprese devono subire e che certamente non diminuiscono se la transizione viene ritardata.
Una stima della Commissione Europea prevede che negli ultimi anni stando ai dati disponibili nel portale europeo sulle emissioni industriali (2012-2021), le emissioni industriali in aria hanno avuto un costo esterno stimato tra 2,7 e 4,3 trilioni di euro, con una media tra 268 e 428 miliardi di euro all'anno. Questi costi esterni sono diminuiti costantemente (-33%) nel corso del decennio oggetto di esame. Ciò suggerisce che le politiche per mitigare e controllare l'inquinamento e altri fattori, come l'uso di combustibili meno intensivi in termini di carbonio, hanno avuto un impatto positivo, portando a una riduzione dei danni ambientali e dei costi sociali associati. Tuttavia, persistono costi significativi, il che indica la necessità di un'azione continua per ridurre ulteriormente i livelli di inquinamento e gli impatti associati. Nel 2021, i costi esterni dell'inquinamento atmosferico dei grandi operatori industriali inclusi in questo studio erano equivalenti a circa il 2% del PIL dell'UE.
Nel 2020 si è registrato un calo più netto rispetto agli anni precedenti a causa della pandemia di COVID-19, seguito da un effetto di ripresa nel 2021, quando le attività industriali hanno ripreso a un ritmo più sostenuto, in una certa misura. I costi esterni totali per il 2021 sono dominati dai principali inquinanti atmosferici (27-55%), a seconda che venga utilizzato il metodo del valore di un anno di vita (VOLY) o del valore della vita statistica (VSL), seguiti dai gas serra (GHG) al 43-69%, dai metalli pesanti al 3-4% e dagli inquinanti organici allo 0,02-0,03%. La quota relativa dei costi esterni causati dai GHG è aumentata nel periodo 2012-2021.
E queste stime escludono le altre fonti di inquinamento come quello per il riscaldamento domestico e quello dei trasporti.
C'è un interessante studio del luglio del 2024 dal titolo: "Global health costs of ambient PM2·5 from combustion sources: a modelling study supporting air pollution control strategies" (di Hao Yin, Erin E McDuffie, Randall V. Martin, Michael Brauer) che parla dei costi sanitari globali derivanti dall'inquinamento derivante dalle polveri sottili in particolari dai PM2,5. Lo studio sostiene che l'esposizione globale a lungo termine al PM 2,5 ambientale da fonti di combustione fossili ha imposto costi sanitari pari a 1,1 trilioni di dollari nel 2019, pari al 56% dei costi sanitari totali da tutte le fonti di PM 2,5.
Insomma, il conto da pagare per un ritardo nel processo di transizione green è molto più salato di quello che potenzialmente potrebbe derivare dalla dipendenza da paesi terzi per l'approvvigionamento di materi prime o di materiali. E del resto si può dipendere meno dalla Cina per i pannelli fotovoltaici e simili, ma si finisce comunque per dipendere dai paesi del Golfo per il gas importato per produrre energia. La sostanza non cambia molto a livello strategico, ma cambia molto per i costi esterni perché produrre energia da fonti rinnovabili attenua il cambiamento climatico e mitiga i costi sanitari e ambientali di cui si è parlato in questo articolo.
Dott. Arturo Gulinelli